Come finisce una pandemia
Quando finiscono, davvero, le pandemie? Negli ultimi tempi se lo sono chiesto in molti, e a più riprese. Le pandemie del passato sembravano non esaurirsi mai: si pensi alla peste, che per ondate successive tormentò l’Europa lungo tre secoli di storia. Mutatis mutandis, la recente pandemia di Covid-19 è durata esattamente tre anni, tre mesi e cinque giorni: dalla dichiarazione da parte dell'OMS di emergenza sanitaria internazionale (PHEIC, “public health emergency of international concern”) del 30 gennaio 2020, all’annuncio della sua fine lo scorso 5 maggio. Nel mezzo, oltre 765milioni di contagi rilevati nel mondo, quasi 7 milioni di morti accertate, addirittura 16-28 milioni quelle stimate.
A motivare la decisione dell’OMS e del suo comitato di gestione dell’emergenza è stata la progressiva flessione dei contagi, delle morti e delle ospedalizzazioni, oramai al di sotto della soglia ritenuta critica: i nuovi casi registrati sono in diminuzione costante a livello mondiale, ma non nel Sud-Est Asiatico, dove nel mese di aprile hanno ripreso ad aumentare. Le varianti oggi dominanti – Omicron, Kraken e Arturo – appaiono per lo più stabili, mentre crescono ancora le "new entry" Gryphon, Hyperion e XBB. In concomitanza dell'annuncio di fine emergenza, l’OMS ha pubblicato anche un report in cui conferma come i sistemi sanitari nazionali stiano iniziando a riprendersi dalla pandemia, eppure secondo alcuni epidemiologi la decisione di porre fine allo stato di emergenza sarebbe prematura. Perché?
A pochi giorni dalla dichiarazione dell’OMS di fine dell’emergenza sanitaria, il biologo Trevor Bedford del Fred Hutchinson Cancer Center di Seattle avrebbe consegnato alla Casa Bianca i risultati di una sua analisi statistica in cui prevede una nuova ondata di contagi da Coronavirus entro il 2025. Sorte analoga per un’altra recentissima PHEIC, vale a dire l’epidemia di vaiolo delle scimmie: l’OMS ha dichiarato la fine dell’emergenza la settimana successiva all'annuncio su Covid-19, ricevendo le critiche di alcuni epidemiologi per i quali il calo di attenzione da parte della comunità internazionale potrebbe trasformare il vaiolo delle scimmie in una malattia negletta, dimenticata, sebbene il morbo non sia ancora del tutto scomparso in Africa.
Come può una pandemia dirsi conclusa se il virus circola ancora? E come sono finite le pandemie del passato? Nel mondo antico si esaurivano principalmente per consunzione: virus e batteri si spandevano tra le nazioni, senza resistenze, decimando le popolazioni e immunizzando i sopravvissuti. Più di recente, il virus dell’influenza spagnola evolse in una variante meno aggressiva, all’origine dell’attuale virus dell’influenza stagionale, mentre all’HIV si pose un freno attraverso la messa a punto di farmaci efficaci per curarne i sintomi. La pandemia di Covid-19 è stata la più grande di sempre per la portata delle misure preventive di sanità pubblica e per la vastità della sua campagna di vaccinazione, capaci di abbattere la contagiosità e la letalità del Coronavirus.
Come ha ricordato lo stesso direttore generale dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, il Coronavirus non è dunque scomparso, ha piuttosto trovato il suo equilibrio: muta e si diffonde ancora, ma uccide poco, grazie al fatto che oggi circa l’80% della popolazione è immunizzata. All’apice della pandemia, Covid-19 dava la morte a un contagiato su dieci: oggi il tasso di letalità è di un contagiato su 1200 tra i vaccinati, pari a quello dell’influenza stagionale, e di uno su 250 per i non vaccinati. Più che un “liberi tutti”, l’annuncio dell’OMS è un invito quindi a non abbassare la guardia: il virus è e rimarrà tra noi, bisogna continuare a monitorarlo, e a proteggere gli individui più fragili.
Il più delle volte accade proprio così, con le pandemie: i virus diventano endemici, si stabilizzano intorno a un livello tollerabile di contagi ed entrano nell’ordine normale delle cose. Si impara a conviverci, insomma. La fine di una pandemia non coincide quasi mai con la scomparsa dell’agente patogeno, ma col venire meno delle condizioni di emergenza. C’è una fine sanitaria e una fine percepita, delle pandemie, e l’impressione è che con Covid-19 si sia arrivati alla seconda: a finire non è tanto la pandemia in sé, ma la paura della pandemia, lo stato di allarme che ci ha permesso di addomesticarla.
Nel mondo antico non faceva in tempo a concludersi una pandemia che subito ne cominciava un’altra, e oggi che Covid-19 non è più un’emergenza ci si interroga già sugli allarmi futuri. In aprile un fungo della rosa ha infettato un essere umano in India, primo caso al mondo, mentre un’infezione fungina da candida auris ha fatto registrare il primo caso di morte da questa malattia in Veneto. Al di là dei casi episodici e isolati, che per ora non preoccupano i centri di epidemiologia, la principale minaccia è rappresentata oggi dall’influenza aviaria: quella incorso nel mondo è considerata la più vasta di sempre, e si teme che il virus H1N1 possa mutare fino a contagiare direttamente l’essere umano. Se sapremo farne tesoro e non relegarla all’oblio collettivo, la memoria di Covid-19 si rivelerà fondamentale per farsi trovare pronti, prevenire, o arginare sul nascere, le pandemie di domani.
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